mercoledì 22 settembre 2010

L'ottavo colore - primo capitolo




I


Si svegliò, se così si può dire, e questo basterà a spiegare molte cose. Sdraiato faccia a terra su una tela gigante, lunga non meno di quattro metri e larga non più di due, stesa vergine sul pavimento, lui nudo, lei cosparsa di colori brutalmente schizzati sulla sua superficie, sollevò la testa ed inspirò tutta l'aria che, come giustamente intuivano i suoi polmoni, gli era mancata nei secoli – o tali gli sembrarono – precedenti al suo risveglio. Non capiva. Non capiva. No, non capiva. Non capiva cosa ci facesse lì, non ricordava nulla e, cosa ancor più importante dal punto di vista di uno che, risvegliatosi, si ritrovi senza vestiti riverso al suolo con il corpo intero e – più nello specifico – con ciò che qualcuno gli aveva insegnato a chiamare “le parti intime”, tutto ricoperto di idropittura fredda e liquida, non sapeva chi era.
Ci mise un po' ad alzarsi in piedi, in parte per il vortice di confusione che gli annebbiava la testa e la vista, in parte per qualcosa di cui non si era ancora reso conto. Ciò di cui non aveva avuto coscienza in precedenza era lo stato di dolore in cui tutto il suo corpo si trovava, soprattutto per quanto concerne una zona generalmente protetta come quella dell'interno coscia, in cui era presente un taglio moderatamente profondo da cui lentamente sgorgava un sangue scuro e vischioso simile a lava che, dai paraggi della bocca principale del vulcano, minacci di far sprofondare il mondo intero in un oblio di fredda staticità immemore. La sua attenzione fu tuttavia attratta da due elementi di gran lunga più curiosi. Punto numero uno, una sensazione visiva. Quel sangue moderatamente denso, infatti, si era mescolato ai colori di cui abbiamo già parlato prima: le tempere, che davano alla scena intera un'atmosfera da un canto grottesca, ironica dall'altro. Aveva il sangue blu. Poi verde, arancione, giallo, viola, eccetera. Sembrava quasi che una di quelle matite con la punta multicolore – a causa di un caldo in quel momento inesistente – gli si fosse sciolta addosso. In secondo luogo, stava piangendo. O, per lo meno, aveva pianto. In effetti, in assenza di quella familiare sensazione alla gola che generalmente identifichiamo con la parola “groppo”, l'unico indizio a testimoniare le lacrime che aveva versato erano le lacrime stesse, ancora condensate sul suo volto sporco di polvere e, a questo punto, anche di fango.
Si portò una mano alla testa, pesante, e spremette le meningi. Cosa cazzo mi è successo? si chiese, mentre le gambe avevano preso a tremargli così violentemente che dovette sedersi. Fu allora che si rese conto di trovarsi in aperta campagna. Fili d'erba s'intrecciavano appena inumiditi intorno alle dita dei suoi piedi e delle sue mani, mani che erano andate ad appoggiarsi al suolo, scaricando così il peso dalla schiena, per cercare di bloccare quel mondo che ancora non aveva smesso del tutto di girare. Un prato, quindi, e per di più un prato verde. Poi, campi di grano il cui colore dorato andava man mano confondendosi con le luci di un crepuscolo che non riuscì a riconoscere come alba o come tramonto, tanto era in quel momento in lui assente il sentimento del tempo. Tempo. E il suo udito si sintonizzò su quella che gli sembrò musica, e che, effettivamente, lo era. Non si mosse. Qualcuno cantava parole che conosceva fin troppo bene, e anche se non avrebbe saputo dire quando, dove e in quale situazione le avesse già sentite, una voce dentro di lui decise di manifestarsi tramite le sue corde vocali, e la sua gola secca, senza intonazione alcuna, solo seguendo il ritmo della melodia, mormorò: Kicking around on a piece of ground in your hometown, waiting for someone or something to show you the way. Non conosceva il titolo di quella canzone, ma lo stupore dovuto al fatto che, sì, evidentemente qualcosa di questo mondo lo ricordava ancora, e per di più che questo qualcosa non fosse meramente legato ad una sensazione, i nomi dei colori, i profumi della lontananza dalla città – ecco, sì, sapeva ancora cosa fosse una città –, la dolce sensazione al tatto di strisciare le piante dei piedi sull'erba – per quanto il dolore lo costringesse a farlo lentamente –, ma che riuscisse a ricordare addirittura delle parole, delle parole per di più in inglese, Cazzo – pensò – so cos'è l'inglese, questo, e il bisogno di riordinare le idee, lo convinsero a fare un altro tentativo. Portò le braccia davanti alle gambe, poi si sporse in avanti facendo scivolare le mani di fronte alle punte dei piedi e, facendosi forza con i polpastrelli, stirò i tricipiti e contrasse i quadricipiti, ottenendo così di trovarsi in posizione eretta. Se in quel preciso istante qualcuno si fosse trovato a passare di lì, così, per caso, quella scena gli sarebbe sembrata estremamente familiare: quell'uomo, con le braccia stese quasi a cercare nell'aria un appiglio per non perdere l'equilibrio, somigliava incredibilmente ad un bambino che muovesse i suoi primi passi autonomi dopo mesi in cui era stato costretto a vedere ciò che sua madre e suo padre avevano deciso di fargli vedere e provare ciò che avevano deciso di fargli provare. Così, dopo un attimo di tentennamenti, aveva puntato i piedi per terra e si era voltato, attirato da quella musica che, ovviamente, non aveva ancora cessato di suonare. Di fronte a lui, i muri di nuda pietra e il tetto in tegole rosse leggermente imbrunito dal tempo, c'era un casolare.
La luce del giorno, ormai scomparsa sotto la linea dell'orizzonte, fece capire al nostro che aveva appena assistito ad un tramonto. Era il primo tramonto che la sua memoria riuscisse a ricordare.

lunedì 20 settembre 2010

Paradiso Terrestre

Allora il Signore Dio plasmò la donna e l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle loro narici un alito di vita e la donna e l'uomo divennero esseri viventi. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò la donna e l'uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male. Il Signore Dio prese la donna e l'uomo e li pose nel giardino di Eden, perché lo coltivassero e lo custodissero. Il Signore Dio diede loro questo comando: «Voi potrete mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non dovete mangiare, perché, nel giorno in cui voi ne mangerete, certamente dovrete morire». E il Signore Dio disse: «Non è bene che la donna e l'uomo siano soli: voglio fargli un aiuto che li corrisponda». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse alla donna e all'uomo, per vedere come li avrebbero chiamati: in qualunque modo avessero chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così la donna e l'uomo imposero nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici.
Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, dio sa che il giorno in cui voi ne mangerete si aprirebbero i vostri occhi, e dio stesso morirebbe, conoscendo voi il bene e il male».
Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due, e tutti e due conobbero la bellezza del mondo e del cosmo intero e il profumo dei ruscelli e i colori dell'arcobaleno. Conobbero l'inesistenza del bene e del male e la dolcezza della carezza umana e le sfumature melodiose l'uno negli occhi dell'altro. E conobbero di essere vestiti; si tolsero di dosso le foglie di fico e furono nudi, e non ebbero vergogna. La Donna e l'Uomo si unirono, e la Donna creò l'Uomo sussurrandogli in nome Adamo, e l'Uomo creò la Donna sussurrandole in nome Eva. Poi udirono il rumore dei passi di dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l'Uomo e la Donna si portarono al cospetto di dio, in mezzo agli alberi del giardino. Adamo chiamò dio, e dio gli rispose: «Avete forse mangiato dell'albero di cui vi avevo comandato di non mangiare?». Rispose l'Uomo: «La Donna che io amo mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato». Dio disse alla Donna: «Che hai fatto?». Rispose Eva: «Il serpente mi ha aperto gli occhi e io ho mangiato. Poi anch'io ho aperto gli occhi».
Allora dio disse: «Ecco, l'Uomo e la Donna sono diventati come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male». E Adamo rispose: «Ecco, dio è diventato come uno di noi in quanto alla conoscenza dell'Uomo». Ed Eva baciò dio sulle guance e gli disse: «Tu fosti nostro padre, in passato, e noi avemmo bisogno di te. Ma ora sappiamo che sempre tu fosti nostro figlio, e noi scegliamo di vivere senza te». E l'Uomo e la Donna scacciarono dio dal giardino di Eden, per amare il suolo da cui erano stati tratti.

domenica 19 settembre 2010

Uomo


Nasce l'esser tuo dallo scrosciar perpetuo,
scorrere incessante d'impetüose acque,
brillano diafane, carezzan lidi e i fondi
e il nobile principio dell'esistenza tua:

è oro, non altrove è la tua essenza,
tradita per millenni dalla forma
inflitta ed autoinflitta da quei fabbri
che vollero forgiarti e congelarti,
malignamente dandoti l'aspetto
di una bilancia con due soli arti.

E finsero l'argento nei tuoi piatti,
fissaron le tue membra appena nate
con viti e vecchi chiodi arrugginiti,
parole travisate o modellate
a imago di color che travestiti
apparvero alla stirpe come agnelli.

Ma in verità,
in verità vi dico
la falsità e l'inganno,
sono il nettare degli esseri in catene.
Sei libero, o schiavo tra gli schiavi,
tu, uomo,
che oro della terra e degli oceani
nascesti, a dare una ragione,
un peso, un valore,
una bellezza, una visione
disomogenea e dissonante
a questo mondo che ti è padre,
e che è figlio dei tuoi occhi,
eternamente grato ad essi
per esser la sostanza dei suoi sogni.

Uomo,
sei oro tu di forma e di sostanza.
Riluce il tuo profumo,
solo manifesto
all'uomo senza patria.

martedì 31 agosto 2010

La Berlino parallela - Breve cronaca di pochi minuti dentro e fuori dall'esistente

Direttamente dal Moleskine di Berlino:

Sto assistendo ad una scena incredibile. Due persone, nel buio della mezzanotte all'esterno di una Neue Nationalgallerie illuminata solo dalle luci di un lampadario, della luna e della città, ma tutte così lontane da lasciare l'ambiente intero nella penombra, beh, due persone ballano un tango accompagnate soltanto dallo scrosciare di un ruscello o di una fontana - non so cosa sia, non riesco a vedere cos'è - e dal silenzio della notte. Si mescolano alle ombre che avvolgono il luogo, ora alle colonne dell'edificio, ora alle foglie degli alberi, ora riemergono dall'oscurità del pavimento proiettando le loro sagome sullo sfondo dei grattacieli lontani di Potsdamer Platz. Mentre i loro piedi scivolano strisciando sul pavimento, io stesso vedo a stento quello che sto scrivendo. Il tango del silenzio.

Passo avanti, e la notte di luna continua a gettare un'atmosfera di penetrante irrealtà su ciò che mi circonda. Sento una melodia che, nonostante la breve distanza che ho percorso, non raggiungeva il luogo in cui mi trovavo prima. È strano, lo so, non ho fatto altro che girare intorno all'edificio, ma sono sicuro che il silenzio sia stato rotto solo adesso. Ed è un nuovo silenzio quello che irrompe nell'aria: il silenzio di un sassofono. Un uomo di cui non riesco a vedere il volto, un paio di cuffie a coprirgli le orecchie e lo strumento in mano, completamente da solo, suona delle note che non ho mai sentito, e che probabilmente non sentirò mai più. Suona per sé, o forse suona per la luna. Forse suona per me, questo non saprei dirlo. E cammina, e gli si inarca la schiena quando tocca le note più alte, mentre si abbassa verso il suolo quando intona i bassi. È tardi. Forse. Comunque sia, decido di andare. E mi lascio alle spalle le melodie silenziose di un universo parallelo.

giovedì 22 luglio 2010

Stella 188

Si chiamava Stella 188 ed era la sua preferita, la più bella.

Non che ne avesse altre, ad avere una stella si è già abbastanza fortunati.. ma era comunque la sua preferita e lo sarebbe stata anche se ne avesse avute mille. Certo, era un nome del tutto inusuale per una stella; ma in fondo, quale non lo è? Non si dovrebbero dar nomi alle stelle, anzi, non si dovrebbero dar nomi a un bel po' di cose a pensarci bene: quando ci passerà questa mania di dar nomi a tutto, e la smetteremo di usare così tante parole, forse che ci verrà più facile comunicare con quello che resta, lasciandole perdere, tutte quelle parole. Forse che ci verrà più facile parlare con gli occhi, magari con un sorriso, e chissà, forse che ci verrà più facile persino parlare col cuore.

Comunque sia, quello era il suo nome e nessuno poteva farci niente: Stella 188.

Avrà avuto i suoi buoni motivi a chiamarla così.

Però.. c'era quel 'però'. C'è sempre qualche 'però' da qualche parte. Nascosto magari, o tardivo, ma state tranquilli che qualsiasi discorso vi affrettiate a concludere, almeno un 'però' ve lo ritrovate davanti. Parole. Chissà se in quell'altro modo di parlare, in un discorso con sorrisi e sguardi, anche li escono i 'però'. Chissà. Certo è che se si sta parlando col cuore proprio in quel caso si può star tranquilli, che di 'però' non se ne incontrano, quando si parla col cuore. Escono i 'forse', quelli si, e qualche 'perché' si trova a spuntare di tanto in tanto.. ma di 'però' neanche l'ombra.

E allora cos'era quel 'però' che aveva innanzi? Cos'era quella strana sensazione, quasi come stesse scivolando via da se stesso, lontano, che fermandosi un attimo e mettendo bene a fuoco riusciva a vedere la sua vita dall'esterno, spettatore e protagonista insieme.

Il fatto è che lo sapeva benissimo cos'era, quella sensazione. Non sapeva perché stesse accadendo, ma quello è un altro discorso. È così difficile a volte venire a capo di alcune situazioni così intricate, che, con una dose d'arroganza tale da farci credere di poter rispondere, andarsi a chiedere pure il perché equivarrebbe a non vivere.

Ma lasciamoli perdere i 'perché', concentriamoci sui 'però'. Su quel 'però'.

Era un 'però' di quelli bastardi questo. Di quelli su cui potresti distenderci il cervello settimane intere, e ritirandolo su scoprire che è rimasto del tutto intatto: 'però'.

Tale e quale a com'era prima.

Cosa poteva fare, quello, proprio non lo sapeva. D'altronde non ci sono così tante cose da fare quando ti accorgi che la tua stella, la tua preferita (anche se hai solo quella), la Stella 188.. beh, quando ti accorgi che la sua luce va affievolendosi?

È un bel casino, sapete?

Non stiamo mica parlando di una lampada, sai com'è, uno invece che affezionarsi a una stella si affeziona ad una lampada. Può capitare. Poi un bel giorno la luce si fa più fioca, e allora basta cambiare la lampadina ed è tutto ok, tutto sistemato.

La luce di una stella è una luce diversa. È la vita stessa, della stella.

E in quel momento la vita della 'sua' stella stava diminuendo. Ma attenzione. Ciò non vuol dire che stava diminuendo il valore che noi, nella frase precedente, attribuiamo al termine 'vita', a diminuire è il valore di 'sua'. La luce di Stella 188, di per sé, era sempre quella. Ma era ai suoi occhi che perdeva luminosità. La 'sua' stella si stava allontanando da lui.

Ma cosa mai poteva fare lui, di fronte la sua stella che sempre più andava perdendo la sua luce? Era una situazione che oltre ad addolorarlo lo irritava: aver la consapevolezza (e la voglia) di poter fare qualunque cosa e non poter far nulla. Ditemi voi se non vi avrebbe preso il nervoso. Purtroppo il centro di tutto sta nel fatto che la luminosità della stella non dipendeva affatto da lui, bensì da lei, Stella 188. A lui al massimo restava la scelta di accettare il buio che sarebbe seguito, il buio che gli avrebbe tenuto compagnia per tutto il tempo in cui avrebbe cercato di ritrovare la 'sua' stella, oppure, in alternativa, ripararsi alla luce di altre stelle.

[Buio e luce. Buio e altre. Buio.]

L'avrebbe persa, lo sapeva. Ormai ne era certo. Stava affievolendosi sempre di più, e avrebbe continuato a farlo fino a spegnersi del tutto. Meglio: fino ad accendersi di buio. Un buio accecante. E cosa avrebbe fatto lui, ormai solo, in quel buio? Si certo, capisco che ai vostri occhi appare la soluzione più scontata, ma pensate davvero che lui avrebbe aspettato che passasse di li un'altra stella, a illuminarlo, e si sarebbe accontentato del suo bagliore che, per quanto intenso, mai lo avrebbe colpito come aveva fatto la Stella 188?

E già quel chiarore soffuso che ancora persisteva era causa di dolore, paragonato alla viva lucentezza con cui Stella 188 aveva precedentemente brillato. Giunto il buio come avrebbe fatto a sopportare il dolore? Ma certo che non lo avrebbe fatto. Certo che non si sarebbe accontentato di un altro bagliore.

Che poi voglio dire, con tutto rispetto, di stelle ce n'erano, e certamente avrebbe potuto trovarne di più grandi e luminose. Solo non sarebbero state Stella 188.. chiaro.

Il fatto è che spesso, in attimi di buio intenso, quando pensiamo che l'unica cosa che può salvarci è la luce, il più possibile, luce, ci rendiamo conto che di tutta questa luce alla fine non ce ne facciamo niente, se non è nostra. Perché acceca più il buio che la luce a volte. E a volte è meglio scegliere il buio alla ricerca della nostra luce, che non tutta la luce dell'universo meno quella che stiamo cercando.